ALFIO PETRINI








Lo sguardo sull’arte dell’attore.
di Alfio Petrini

Attraverso i libri della formazione.
Prima parte
Traduzione in lingua spagnola
di Dora Cortez

L’articolo sarà pubblicato in frammenti con la scansione di una settimana l’uno dall’altro.

1. Il drammaturgo percepisce il personaggio, ma si rivolge all’attore/danzatore. Il suo referente diretto è l’attore/danzatore, non il pubblico. Scrive, pensando a lui. Gli mette a disposizione una tessitura di azioni fisiche organizzate in strutture, suggerendogli come i personaggi possano autodeterminarsi attraverso il loro comportamenti. Se il drammaturgo scrive per l’attore/danzatore, non può ignorare né i segreti né i problemi relativi alla sua arte.

       Stupri, pedofilia, abusi, soprusi, menagement violento, mobbing, delusioni, frustrazioni, esclusioni,  aggressioni, discriminazioni di ogni genere – chi più ne ha più ne metta - sono fatti di cronaca quotidiana. Si tratta di eventi che producono disagi, stress, disturbi della personalità, depressioni, traumi, patologie che lasciano segni indelebili nel corpo/mente dell’uomo contemporaneo. In alcuni casi provocano persino la morte, la fuga dalla realtà o il suicidio, come nel caso di France Telecom che ha messo in atto una sciagurata gestione del personale provocando, in un anno e mezzo, diciotto suicidi e alcuni tentati suicidi. L’autorità che si trasforma in autoritarismo, il piacere fisico che diventa edonismo,  lo sviluppo sociale che non coincide con un reale progresso umano sono fattori che - assieme alla quantità attraente dei numeri (vendite, fatturato, ricchezza, successo) - incidono sulla qualità di vita dei cittadini, ai quali è negato di essere uomini, creature umane con un corpo e un’anima da tenere in buona salute. Quanti sono gli imprenditori che considerano i  lavoratori dipendenti un capitale prezioso da conservare per la prosperità aziendale? Quante sono i padri e le madri che fanno esercizio di autorità in funzione della crescita armoniosa e dello sviluppo fiorente dei loro figli? Quante scuole hanno insegnanti che sono educatori? E quanti sono i politici che  lavorano per rendere un servizio ai cittadini? In una società materialistica e violenta come quella in cui viviamo, c’è poca anima, poca solidarietà, poca filia. Valori fondamentali non sono fattualmente condivisi. Le persone, in larga misura, soffrono. Sono umiliate, ignorate, deluse, ferite nel corpo e nell’anima. E, si sa, quando l’anima soffre, anche il corpo soffre. E quando l’anima muore anche il corpo muore. Una parte delle persone umiliate e offese sopportano, reagiscono. Altre, se non cadono come corpi morti che cadono, appassiscono, perdendo tono, energia, voglia di vivere. Se non dominano il corpo, il corpo li domina e gli impedisce di fare quello che potrebbero e vorrebbero fare. Da amico il corpo diventa nemico.  Questo, e molto  altro, alimenta il male di vivere, che ha raggiunto la estensione della tragedia umana e che si riverbera sulla formazione delle nuove generazioni di attori/danzatori e di drammaturghi. Le patologie mettono in discussione la interezza dell’uomo a due dimensioni (materiale e immateriale). Alzano muri. Generano quelle resistenze sulle quali Grotowski ha detto parole estremamente chiare, indicando la strada per superarle e per vincerle. L’uomo fatto a pezzi è impossibilitato a compiere l’atto totale della creazione artistica e a determinare l’accensione delle pareti interne del corpo, pagando un prezzo alto sul versante della produzione di forme credibili. La questione, oltre a coinvolgere direttamente l’attore/danzatore e a chiamare in causa le scuole di teatro e di danza, interessa di rimbalzo anche il drammaturgo perché, come ho detto, è all’attore/danzatore, liberato dal blocco della paura, che pensa quando scrive un testo linguistico.

      La presenza di centinaia di scuole di teatro e di danza imporrebbe una riflessione sulla qualità delle azioni formative in campo. Una cosa è certa: il teatro non ha bisogno di attori, registi o drammaturghi, ma di uomini. Invece di formare gli artisti, bisognerebbe formare gli uomini. Ma questo è un altro discorso. La rivoluzione teatrale del Novecento, eliminando la pedagogia diffusa tipica dell’Ottocento secondo la quale l’attore apprende per contatto, ha reso impraticabile la formazione articolata per materie e per generi, sulla quale tuttavia si attarda la maggior parte delle scuole pubbliche e private del terzo millennio. I motivi d’impraticabilità sono fondamentalmente due. Primo, se manca l’ambiente di riferimento delle famiglie d’arte, le materie non trovano più una organica integrazione. Secondo, la pratica ignora l’uomo totale: in altri termini, separa ciò che invece dovrebbe essere considerato in modo organico e unitario.

     I contenuti e le metodiche riguardanti l’arte dell’attore del Novecento non sono entrati nei programmi didattici delle scuole di teatro. Al cadere delle prime foglie autunnali sui muri delle città appaiono  manifesti che mettono in fila una serie di paroline magiche, specchietti per le allodole che garantiscono la risoluzione di ogni tipo di problema. Le direzioni didattiche reclutano insegnanti tra attori e registi che, non trovando lavoro, si riciclano come sedicenti maestri di impostazione della voce, comportamento scenico, movimento ritmico, psicotecniche  e tendono a fare un’offerta molto abbondante di materie d’insegnamento, puntando sulla quantità piuttosto che sulla qualità del progetto formativo.  Mi pare di poter dire che la formazione si muova, in generale, verso un sistema frantumato d’insegnamento. Tanti insegnanti per tante lezioni separate e distinte. La formazione che fa a pezzi la didattica, fa a pezzi anche l’uomo. Quando si tengono separate cose che invece dovrebbero essere affrontate in modo unitario, s’ignora, come ho detto, l’uomo nella sua interezza. Non ci vogliono dieci o venti insegnanti per lavorare con un gruppo di  attori/danzatori, i quali hanno poco da imparare e molto da  disimparare. Ci vuole un maestro. Un maestro, coadiuvato da un paio di collaboratori, che - tanto per fare un esempio banale -, non insegnerebbe mai la danza fondata sugli stilemi coreografici, quando il discente sta lavorando sulle azioni fisiche e sull’autogestione dei processi organici. Non insegnerebbe al giovane attore/danzatore a guardarsi fuori, quando sta imparando a guardarsi dentro. Non favorirebbe l’esteriorità della forma alla organicità delle forme. Giorgio Taffon  (Dramma.it, Rubriche, aprile 2010) ricorda puntualmente che “I maestri del Novecento teatrale, i Padri fondatori, ci hanno insegnato che in scena occorrono assolutamente due condizioni dell'agire: la precisione e il controllo, e assieme la capacità di essere autonomi e originali e inventivi, pur nell'ambito predeterminato della partitura”. Precisa inoltre che “non c’è separazione tra teatro agito e teatro danzato” e che nel teatro danzato “è la tecnica delle azioni fisiche a primeggiare”. 


Quanti sono, oggi, i maestri riconosciuti? Esiste un’offerta pubblica differenziata di formazione professionale, consapevole dei problemi relativi alla trasmissione del sapere? Perché la formazione dell’attore guarda soprattutto verso lo spettacolo d’intrattenimento, contravvenendo al principio fondamentale del pluralismo fattuale che dovrebbe tenere in buona considerazione anche altre forme di teatro? La quantità corrisponde alla qualità? Guardando verso oriente si continua a citare Stanislawskij come maestro di psicotecnica e del lavoro sulla memoria emotiva, trascurando l’intuizione finale relativa alle azioni fisiche, raccolta e perfezionata  da Grotowski, che ha sempre riconosciuto il suo debito nei confronti del maestro russo. Sul versante occidentale si continua a citare Strasberg o a rilanciare in termini antagonistici Meisner senza dire che la formazione americana è un ritorno rimasticato della psicotecnica stanislavskiana. E’ difficile disegnare un quadro nazionale della proposta formativa. Mi limito a guardare la formazione attraverso alcuni libri di recente pubblicazione, cercando di ricavarne alcune linee di tendenza.
      La scelta della scuola, del maestro, della metodologia di lavoro non è né neutra né indifferenziata. Una scuola di teatro non è uguale ad un’altra scuola, un maestro ad un altro maestro, tanto meno un maestro ad un insegnante. Uno stage sulla mimesi non equivale a uno stage sulla biomeccanica o sui processi organici. Bisogna saper distinguere: individuare le differenze in base alle strategie che si vogliono mettere in atto e ai risultati che si vogliono ottenere. Il trucco - ha raccontato Grotowski -, non è necessario per recitare. Se un attore vuole usarlo, nessuna norma può impedirglielo e nessuno può dare per scontato il crollo dell’architettura su cui si regge il punto di vista che l’ha indicato come superfluo. Va bene il viso truccato, il viso non truccato o la maschera, a condizione che si comprenda la relazione tra scelta e risultati conseguibili. La pratica corrente tende a far passare il valore di una formazione buona per ogni tipo di teatro, che non tiene conto di un dato di fatto fondamentale, e cioè che ci sono contenuti e approcci metodologici diversi per diverse proposte formative per diversi tipi di teatro destinati a diversi pubblici. E’ importante allora che il giovane attore/danzatore non solo goda della libertà di scelta, ma sia consapevole della opportunità e della finalità della scelta.
(1.             continua).

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La mirada sobre el arte del actor
Por Alfio Petrini
Através de los libros de la formación.
Primera parte.
Traducción Dora Cortez Villanueva

1.- El dramaturgo percibe el personaje, pero se dirige al actor/bailarín. Su referente directo es el actor/ bailarín, no el publico. Escribe, pensando en él. Le pone a disposición una textura de acciones físicas organizadas en estructuras, sugiriéndole cómo los personajes puedan autodeterminarse através de su comportamento. Si el dramaturgo escribe para el actor/bailarín, no puede ignorar ni los secretos ni los problemas relativos a su arte.
Violaciones, pedofilia, abusos, atropellos, management violento, mobbing –quién da menos y quién da más- son hechos de crónica cotidiana. Se trata de eventos que producen molestias, estrés, disturbios de la personalidad, depresión, traumas, patologías que dejan signos indelebles en el cuerpo/mente del hombre contemporaneo. En algunos casos hasta provocan la muerte, la fuga de la realidad o el suicidio, como en el caso de France Telecom que ha puesto en acción una desventurada gestión del personal provocando, en año y medio, dieciocho suicidios y algunos tentativos de suicidio. La autoridad que se trasforma en autoritarismo, el placer físico que se vuelve hedonismo, el desarollo social que no coincide con un real progreso humano son factores que –junto a la atractiva cantidad de numeros (ventas, facturado, riqueza, éxito)inciden sobre la cualidad de vida de las personas, a quien es negado de ser hombres, creaturas humanas con un cuerpo y un alma en buena salud. ¿Cuántos empresarios consideran sus trabajadores un capital precioso para la prosperidad empresarial? ¿Cuántos padres y madres ejercen su autoridad para un crecimiento armonioso y un floreciente desarrollo de sus hijos? ¿Cuántas escuelas tienen  maestros que son educadores? ¿Y cuántos son los políticos que trabajan para servir a los ciudadanos? En una sociedad materialista y violenta como en la que vivimos, hay poca alma, poca solidaridad. Valores fundamentales no son de hecho divididos. Las personas sufren mucho. Son humilladas, ignoradas, desilusionadas, heridas en cuerpo y alma. Y, se sabe, cuando el ama sufre también el cuerpo sufre.  Y cuando el alma sufre todo el cuerpo muere. Una parte de las personas humilladas y ofendidas soporta, reacciona. Otras, si no caen como cuerpos muertos que caen, marchitan, pierden tonicidad, energía, ganas de vivir. Si no dominan el cuerpo, el cuerpo los domina y les impide de hacer lo que podrían o quisieran hacer. De amigo, el cuerpo se vuelve enemigo. Esto y mucho más alimenta el mal de vivir, que ha llegado a ser una extensión de la tragedia humana y que se refleja  en la formación de las nuevas generaciones de actores/bailarines y de dramaturgos. Las patologías ponen en discusión la entereza del hombre de dos dimensiones (material e in material). Alzan muros. Provocan aquellas resistencias sobre las que Grotowski ha dicho palabras extremadamente claras, indicando el camino para superarlas y vencerlas. El hombre despedazado está imposibilitado para cumplir el acto total de la creación artistica y a determinar combustión de las paredes internas del cuerpo, pagando un precio alto en lo que se refiere a la producción de formas creíbles. La cuestión, además de interesar directamente el actor/bailarín y a llamar en causa las escuelas de teatro y de danza, interesa de rebote también al dramaturgo porque, como he dicho, es el actor/bailarín, liberado del bloqueo del miedo, que piensa cuando escribe un texto linguistico.
La existencia de centenares de escuelas de teatro
 y danza impondría una reflexión sobre la cualidad de la acción formativa en campo. Una cosa es cierta: el teatro no necesita actores, directores o dramaturgos, sino hombres. En lugar de formar artistas, se necesitaría formar hombres. Pero éste es otro tema. La revolución teatral del s. XX, eliminando la pedagogía difundida típica del s. XIX según la cual el actor aprende por contacto, ha vuelto impracticable la formación articulada por materias y por géneros, sobre las cuales todavía pierde tiempo la mayor parte de las escuelas públicas y privadas del tercer milenio.  Los motivos de impractibilidad son fondamentalmente dos. Primero, si falta el ambiente de referencia de las familias de arte, las materias no encuentran más una integración orgánica. Segundo, la práctica ignora al hombre total: o sea, separa lo que en cambio debería ser considerado en modo organico y unitario.
Los contenidos y las metodicas que se refieren al arte del actor del s. XX no entraron en los programas didácticos de las escuelas de teatro. Cuando empiezan a caer las primeras hojas del otoño, sobre los muros de la ciudad aparecen manifiestos que ponen en fila una serie de palabras mágicas, señuelos para ingenuos que garantizan la solución de cualquier tipo de problema. Las direcciones didácticas reclutan docentes entre actores y directores que, no encontrando trabajo, se reciclan como sedicentes maestros de impostación de la voz, comportamento escénico, movimento rítmico, psicotécnicas y tienden a presentar una oferta muy abundante de materias, concentrandose en la cantidad más que en la cualidad del proyecto formativo. Creo de poder afirmar que la formación se mueve en general hacia un sistema triturado de enseñanza. Tantos docentes para tantas lecciones separadas y distintas. La formación que despedaza la didáctica, despedaza también el hombre. Cuando se separan cosas que deberían ser afrontadas en modo unitario, se ignora el hombre en su entereza. No se necesitan diez o veinte docentes para trabajar con un grupo de actores/bailarines, que tienen poco que aprender y mucho que desaprender. Se necesita un maestro.  Un maestro coadyuvado de dos colaboradores que, para poner un ejemplo banal, no enseñaría nunca la danza fundada sobre los estilemas coregraficos, cuando el alumno está trabajando sobre las acciones físicas y sobre la autosugestión de los procesos organicos. No ensenaría al joven actor/bailarín a mirarse fuera, cuando esta aprendiendo a mirarse dentro. No estaría a favor de la exterioridad de la forma sino de la organicidad de las formas. Giorgio Taffon (Dramma.it, Rubriche, abril 2010) recuerda puntualmente que “los maestros del s.XX teatral, los Padres fundadores, nos han enseñado que en escena se necesitan absolutamente dos condiciones para actuar: la precisión y el control, y junto a ellas, la capacidad de ser autónomos y originales y creativos, inclusive en el ambito predeterminado de la partitura. Precisa además que “no existe separación entre teatro actuado y teatro danzado” y que en el teatro danzado “es la técnica de las acciones fisicas a ocupar el primer lugar”.

La elección de la escuela, del maestro, de la metodología de trabajo, no es ni neutra ni indeferenciada. Una escuela de teatro no es igual a otra, o un maestro igual a otro maestro, sobre todo un maestro no es igual a un docente. Un stage sobre la mímesis no equivale a un stage sobre la biomecánica o sobre los procesos organicos. Se requiere saber distinguir: individuar las diferencias en base a las estrategias que se quiere poner en acto y a los resultados que se quiere obtener. El maquillage, sostenía Grotowski-, no es necesario para actuar. Si un actor quiere usarlo, nada puede impedírselo y nadie puede dar por descontado el derrumbe de la arquitectura sobre la que se basa el punto de vista que lo ha indicado como superfluo. Esta bien el rostro maquillado, el rostro sin maquillage o la máscara, con la condición de que se comprenda la relación entre la elección y los resultados conseguibles. La regular práctica tiende a hacer pasar el valor de una buena formación por cada tipo de teatro que no tiene en cuenta de un hecho fundamental, que hay contenidos y criterios metodológicos diversos para diversas propuestas formativas, para diversos tipos de teatro destinados a diversos publicos. Es importante entonces que el joven actor/bailarín no solo goce de la libertad de elección sino que sea consciente de la oportunidad y de la finalidad de la elección. ¿Cuántos son hoy los maestros reconocidos? ¿Existe una oferta pública diferenciada de formación profesional, consciente de los problemas relativos a la transmisión del saber? ¿Por qué la formación del actor mira sobre todo hacia el “espectáculo de entretenimiento” contradiciendo el principio fundamental del pluralismo, que debería tener en buena consideración también otras formas de teatro? ¿La cantidad corresponde a la cualidad? Mirando hacia oriente se continua a citar Stanislawski  como maestro de psicotécnica y del trabajo sobre la memoria emotiva, olvidándose de la intuición final relativa a las acciones físicas recogida y perfeccionada por Grotowski, que ha sempre reconocido su deuda con el maestro ruso. En el occidente se continua a citar Strasberg y a lanzar en término antagonista Meisner sin decir que la formación americana es un retorno remasticado de la psicotécnica stanislawskiana. Es difícil diseñar un cuadro nacional de la propuesta formativa. Me limito a observar la formación a través de algunos libros de publicación reciente, buscando de recavar algunas líneas de tendencia.
(1. continuará)



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Lo sguardo sull’arte dell’attore.
di Alfio Petrini

Attraverso la scrittura drammaturgica.
Seconda parte.

L’articolo sarà pubblicato in frammenti con scansione di una settimana l’uno dall’altro.

1. “La rigida distinzione – scrive Eugenio Barba nel Dizionario di antropologia teatrale  (1) –, fra il teatro e la danza, caratteristica della nostra cultura, rivela una ferita profonda, un vuoto di tradizione che rischia continuamente di attrarre l’attore verso il mutismo e il danzatore verso il virtuosismo. Questa distinzione apparirebbe assurda ad un artista orientale, così come sarebbe apparsa assurda ad artisti europei di altre epoche storiche : a un giullare o a un comico del Cinquecento”. I disinvolti passaggi dal discorso sul teatro a quello sulla danza non devono dunque suscitare perplessità o stupore. “I principi di vita – aggiunge Barba - di cui andiamo in cerca non tengono in alcun conto le nostre distinzioni fra ciò che definiamo teatro o mimo o danza. Uno dei principi attraverso cui il corpo dell’attore e del danzatore rivela la sua vita allo spettatore, dunque, in una tensione di forze contrapposte, è il principio dell’opposizione (la danza delle opposizioni si danza nel corpo prima che con il corpo). Attorno a questo principio che ovviamente appartiene anche all’esperienza dell’attore e del danzatore occidentale, le tradizioni codificate dell’Oriente  hanno edificato diversi sistemi di composizione”.    

2. La posizione dello scrittore di teatro è cambiata nel corso del tempo. Non è più importante la posizione morale rispetto alla storia che racconta. Lo scrittore “offre i contenuti del proprio cervello sotto forma di una serie di possibilità alternative fantastiche” (2), scrive Rella, citando Ballard. E’ un osservatore, un esploratore, uno scienziato che si trova di fronte ad un “territorio sconosciuto”, a fatti che non sono mai accaduti e sui quali deve costruire una ipotesi. Il suo lavoro non è alchemico, ma chimico: seleziona

(1)Eugenio Barba, Nicola Savarese, L’arte  segreta dell’attore - Un dizionario di antropologia teatrale, Argo.
(2) Franco Rella, Ai confini del corpo, Feltrinelli, 2000, p.177.

segni e li combina nella prospettiva della miscela linguistica eterogenea e della trasformazione del corpo/mente dell’attore/danzatore.  Predispone il terreno. Costruisce una ipotesi che potrà essere rispettata in tutto o in parte dall’attore/danzatore, ma che in ogni caso funziona da stimolo esterno. Dunque, di fronte a cose sconosciute, mai accadute prima, procede alla costruzione di una ipotesi. Concepisce azioni, inventa situazioni, progetta soluzioni irrisolvibili, favorisce l’irruzione del corpo/mente (dilatato) nel corpo della scrittura, affinché possa entrare dentro di sé il mondo, di cui fa parte anche quello che non conosce: di cui fanno parte i morti e i vivi, le parole, le immagini e i suoni che lo hanno attraversato. Sono tutti lì con lui, sempre, nella stanza in cui lavora. Sta fermo, ma si muove. Sta seduto, ma vola, viaggia. Agisce nella consapevolezza che è solo, che ha solo il corpo/mente a disposizione, ma che allo stesso tempo il corpo/mente sia una ricchezza da non dissipare o disperdere.  E cosa fa per costruire l’ipotesi? Getta lo sguardo nel corpo/mente scorticato nella speranza di poter sfiorare il pathos del mondo. E nel costruire l’ipotesi accetta quindi il mistero del corpo e della mente degli uomini. Ma il segreto dove sta? Sta in ciò che si spinge oltre lo sguardo? Il corpo/mente è veramente mio? E dove finisce? Rella nello straordinario libro Ai confini del corpo scrive che il corpo non termina dove termina la occupazione dello spazio. Essendo lo spazio una estensione del corpo, il corpo comprende anche lo spazio in cui si trova. Ma, se lo spazio è una estensione del corpo, dove termina questa estensione, cioè lo spazio? Non ha limiti, perché il corpo/mente non ha limiti.

“Benjamin - osserva Rella - aveva paura del mito, della forza irrazionale che questo sembrava contenere. Per questo, quando si propone di spezzare il tempo omogeneo e lineare della storia dei vincitori egli riesce a pensare soltanto ad un arresto della dialettica, che anziché sporgersi verso il superamento della contraddizione in avanti, rimaneva sospesa nell’attimo in cui i contraddittori si mostravano con tutta la loro forza ed evidenza. Ma  la paura nei confronti del mito – prosegue Rella -,  che sta dietro ad alcune  cautele benjaminiane, si  estende anche  alla sua rappresentazione simbolica. E dietro ancora c’è probabilmente l’orrore del sesso, del corpo. Benjamin dice che bisogna incedere con l’ascia affilata della ragione, senza volgersi né a destra né a sinistra, per rendere  coltivabili i territori su cui cresce anche la follia, e questo senza lasciarsi attrarre ‘dalla selva primordiale’. La selva primordiale è l’umido di Nana, da cui Benjamin ha distolto gli occhi. Il più grande critico di questo secolo non ha potuto diventare il più grande pensatore di questo secolo per il suo orrore per il corpo” (3).

(3)Franco Rella, Ai confini del corpo, op.cit. pp. 44.45).

3. Vedendo lo spettacolo Blue provisoire di Yann Marussich sono rimasto sorpreso e affascinato dall’utilizzo del corpo come spazio scenico. Mezzi minimi, massimi risultati. E quanta pazienza, quanta tenacia, quanto lavoro per conseguirli. Confermo quello in cui credo: bisogna tornare alle origini. Non voglio dire che tutti i danzatori debbano fare quello che fa Marussich, ovviamente. Dico che  possono danzare o non danzare, impiegare le metodologie o le tecniche più diverse, ma non possono permettersi di produrre forme che non siano credibili ed emotivamente coinvolgenti, tradendo le aspettative legittime dello spettatore accorto. Il dono graditissimo della performance di Marussich è l’accelerazione del battito cardiaco. Marussich sceglie una forma extrème di creazione artistica, andando oltre la meta conseguita da Fiaderio che ho visto a Santarcangelo lavorare sulle tracce. Marussich danza, eliminando la danza. Fa spettacolo, escludendo lo spettacolo. Sceglie  l’azione performativa a posto della rappresentazione, la scultura invece del teatro, l’immobilità assoluta al posto del movimento. Punta sull’attività interiore, invisibile e possente, per rivelare una grande carica energetica. Il danzatore sta fermo per un’ora e mezza. Nessun gesto, nessun movimento. Stare immobile, ecco l’azione fisica che ha scelto di compiere, riempiendo di senso la performance. Il movimento – come per il drammaturgo che sta seduto davanti allo scrittoio -, è in-scritto nel corpo e il corpo è concepito come spazio scenico. Il corpo si carica di percezioni e di vibrazioni fisiche. Genera una mutazione chimica che marca il destino dell’artista e definisce un nuovo rapporto tra azione e colore, tra colore e secrezione. Il colore e la secrezione non sono effetti speciali, ma i frutti di un processo biochimico che produce la colorazione dell’epidermide e l’uscita di secrezioni blu da tutti gli orifizi. Il flusso delle immagini - generato da una piccola telecamera installata su un robot che raccoglie i dettagli della trasformazione del corpo - e  il flusso dei suoni - realizzato in presa diretta come risultato del lavoro compiuto nello spazio scenico del corpo -, confermano la organicità delle forme e la natura performativa della creazione artistica: vera, crudele, barbarica. Blue provisoire” è un perfetto evento intermediale, polidimensionale e sinestetico. S’inoltra nel corpo/mente che è senza confini e senza limiti, offre una visione febbrile del potenziale nascosto nell’uomo, situa lo spettatore in una dimensione altra, comunica l’impalpabile, sfiora la soglia del favoloso possibile, rivela un rapporto in  divenire tra il teatro e le neuroscienze. L’evento performativo non doppia la realtà  e non la ri-crea neppure: è la realtà. Realtà viva, palpitante, offerta mentre accade. Marussich, con il sostegno di alcuni scienziati, compie un esperimento di straordinaria efficacia che genera stupore, confermando il mistero e l’illimite del corpo/mente. Un esperimento che non può essere ripetuto. Deve essere ri-fatto ogni volta, come fosse la prima volta. Un esperimento che non cambia il mondo, ma che afferma il rapporto tra arte e scienza, tra arte e tecnologia, tra arte e poesia. Marussich: un performer geniale. Indimenticabile  

4.  La teoria del tronco di Decroux è importante tanto quanto è disattesa, sia dagli attori sia dai danzatori. Implica particolari ovvi da non dimenticare.  Il tronco sta al centro del corpo umano e al centro del tronco c’è il cuore, dove transita il sangue. L’impulso parte dal baricentro, posto alla base della spina dorsale, nella parte posteriore bassa del tronco dove si trovano le reni, mentre nella parte anteriore bassa si trova il ventre. Per  il drammaturgo che lavora sulle azioni fisiche in funzione dell’attore/danzatore la centralità del tronco è più importante della centralità degli arti: sono più importanti le interiora delle interiorità. Il processo organico del drammaturgo e il processo organico dell’attore/danzatore presentano sostanziali differenze, per entrambi valgono quattro fattori fondamentali: lo stimolo esterno, l’impulso, la ricerca di un asse interiore, la dilatazione del corpo e della mente. Nell’ambito del discorso sulla scrittura di testi pornologici è valida la metafora testoriana del “ventre del teatro” (manifesto del 1968) di cui Giorgio Taffon riferisce in modo rigoroso e puntuale in un interessantissimo scritto sull’autore lombardo e la sua “inciviltà” : “se il teatro , anzi, i teatri sono come dei corpi, Testori punta al loro ventre, non alla testa, né al cuore, vale a dire, non alla elaborazione intellettuale e ideologica da una parte, non al sentimentalismo dall’altra. Punta a ciò che nel corpo teatro è il grembo, il viscere, le interiora, l’utero, dove inizia la vita del teatro stesso, un ‘prima’ che è un prima di ogni ordine esistenziale, culturale, sociale, ideologico, prima di ogni ipostasi dottrinaria astratta. Punta dritto anche all’irrazionale, al dionisiaco, all’istintuale, al fisiologico. Per esprimere quanto di insignificante, assurdo, demente, e/o quanto di divino, amoroso, liberatorio, ha il vivere umano” (4), il che mi sembra confermato dalla messa in vita di molti suoi testi.

La questione della centralità del tronco, in alternativa alla centralità degli arti, ha cambiato il modo di fare teatro e di fare danza, ma è ancora ignorata dalla maggior parte dei coreografi, dei registi e degli attori/danzatori presenti nel mercato internazionale. Irene  Tassembedo è una di questi registi e coreografi. In Le sacré du tempo mette in scena cinque musicisti e sette danzatori ai quali affida il compito di raccontare la storia di uno sgabello di legno in un villaggio africano. Il furto dell’oggetto sacro sconvolge le menti e

(4) Liminateatri, numero 2, Un teatro civile per un paese incivile, oppure un teatro incivile per un paese civile?

cambia la vita degli abitanti del villaggio, i quali perdono saggezza, equilibrio, identità e ritrovano lo stato di salute originario soltanto dopo aver ritrovato lo sgabello. Lo smarrimento della ragione è il tema centrale della favola che non trova però riscontro credibile nella scrittura scenica. Tra testo e scena non c’è collaborazione. Lo spettatore è  conquistato dalle esplosioni barbariche dei musicisti - cuore pulsante dello spettacolo -, ed è respinto dalla fredda ripetizione dei movimenti eseguiti dai danzatori secondo il principio di centralità degli arti inferiori e superiori. In altri termini, la regista-drammaturga, invece di chiedere ai danzatori di scrivere il testo fisico alla ricerca di una coscienza alterata e di un altrove, li guida a risolvere il problema della rappresentazione della perdita dell’equilibro lavorando con l’ascia affilata della ragione. Ignora le forme organiche e punta sugli stilemi coreografici. Mancando il passaggio  dall’equilibrio alla follia, dall’ordine al disordine,  e viceversa, manca la comunicazione seducente dell’impalpabile. Troppa danza e poco teatro. Molta astrazione e poca organicità. Molto atletismo e poca carica energetica. Molta agitazione e poca profondità espressiva. Nessuna credibilità delle forme nel passaggio cruciale dall’armonia al caos e dal caos all’armonia.

(1.            Continua)



5. Il processo organico implica l’atto totale dell’attore/danzatore. Chiama in causa la parte materiale e la parte immateriale dell’essere umano nella prospettiva delle produzione delle forme organiche.  Le forme sono organiche in quanto generate da un processo biochimico autogestito che le rende vive,  credibili, affascinanti. Traggono origine da uno stimolo esterno, nascono nel corpo, sono guidate dalla mente, conquistano il corpo e  la mente dello spettatore. L’attore/danzatore, per il quale scrive il drammaturgo che applica il metodo delle azioni fisiche alla scrittura di un testo linguistico, non si pone il problema d’incarnare il personaggio. Non riorganizza di volta in volta un bagaglio tecnico-emotivo di momenti vissuti nella vita reale o immaginaria. Il suo lavoro - nella consapevolezza del valore extraquotidiano e del livello pre-espressivo del linguaggio teatrale, sui quali non indugio rinviando al prezioso contributo di Eugenio Barba -, ha inizio con la elaborazione di una struttura di azioni fisiche circostanziate, necessaria ad attivare il processo in questione che favorisce l’ingresso nella dimensione della soglia, dove l’attore/danzatore si perde e si ritrova in continuazione. La produzione della materia invadente sottoposta alla tensione guidata produce un effetto destabilizzante, genera il caos e trasforma la carne in corpo glorioso. Quella che segue è una sintesi delle fasi del processo organico.



Stimolo esterno

Impulso interno.

Azioni fisiche con il portato
di ritmo e di energia

Specificazioni di qualità delle azioni fisiche.

Controllo e perfezionamento del processo associativo.

Ampliamento del campo percettivo attraverso la dilatazione del corpo e della mente.

Entrata nella dimensione della soglia o cesura.

Produzione della materia invadente che destabilizza
e genera il caos.

Produzione delle forme organiche.

Montaggio delle azioni fisiche
in funzione
della comunicazione chiara e/o della comunicazione oscura
di 
pensieri, emozioni, sentimenti, percezioni, sensazioni,  desideri, progetti, utopie, misteri indicibili, presenze impalpabili e invisibili
attraverso
l’immagine prodotta dall’azione fisica,
suoni articolati o inarticolati fino al canto,
sinestesie fino alla spazialità della danza.


Il controllo del processo associativo e l’arricchimento delle specificazioni di qualità dell’azione fisica sono passaggi importanti per alimentare e tenere in vita l’azione fisica e renderla credibile. A questo proposito ritengo opportuno riportare alcuni frammenti della Lettera ad un attore del 1967 di Eugenio Barba: “Non credo in quello che fai. Il tuo corpo dice solo una cosa: obbedisco ad un ordine ricevuto dall’esterno. I tuoi nervi, la tua colonna vertebrale, il tuo cervello non sono impegnati, e con una attività epidermica vuoi fari credere che ogni azione è vitale per te. Tu stesso non avverti importanza di quello di cui vuoi rendere partecipe lo spettatore. […] Tu rappresenti la collettività in questo luogo, con le umiliazioni che hai subito, con il tuo cinismo che è autodifesa e il tuo ottimismo che è irresponsabilità, con il tuo senso di colpa e il tuo bisogno di amore, con la tua nostalgia per un paradiso perduto, nascosto nel passato, nell’infanzia, nel calore di un essere che ti faceva dimenticare l’angoscia. Ogni persona presente in questa sala sarà scossa se tu effettuerai, durante la rappresentazione, un ritorno a queste origini, a questo terreno comune dell’esperienza individuale, a questa patria che si cela. Questo è il legame che ti unisce agli altri, il tesoro sepolto nel più profondo di noi stessi, mai messo allo scoperto, perché è il nostro conforto, perché fa male a toccarlo”. Il lavoro sulle azioni fisiche in funzione del processo organico servono a utilizzare il patrimonio nascosto in ogni essere umano.
 

6. Di segno opposto al processo organico è il processo di astrazione. Non si può dire che il processo organico sia garanzia di successo. Anche il processo di astrazione può generare uno spettacolo affascinante. Basti pensare al teatro orientale che nella codificazione trova il suo punto di forza.  Nel teatro occidentale mi sembra che il rischio di fallimento, soprattutto nel campo della danza, sia invece molto frequente. L’astrazione paga un forte debito alla ragione, agli stilemi coreografici legati a contenuti intimistici, alla ripetizione di forme tendenzialmente estetizzanti, alla centralità degli arti inferiori e superiori, in grande sintesi alla mancanza di energia vitale che rende lo spettacolo stereotipato e algido. Le persone non vanno a teatro per essere informate, educate, acculturate o per assistere a elucubrazioni intellettuali o manipolazioni estetiche, ma piuttosto per provare emozioni, stupori e sentimenti, in altre parole per provare piacere. Quando il piacere non c’è, cade uno degli obiettivi fondamentali del teatro: cade il teatro. Lloyd Newson non ha dubbi a questo proposito. Sostiene che nella maggior parte degli spettacoli di danza o di teatro-danza la vita non c’è. C’è la danza e c’è la forma, ma quando il rigore della forma prodotto dai processi di astrazione non è accompagnato da una carica energetica seduttiva, che si ritrova invece nelle forme organiche, si ottiene l’effetto boomerang del respingimento. A un idraulico non  chiediamo di avere la capacità di seduzione, ma di essere abile e onesto nel lavoro. La richiesta è d’obbligo quando ci troviamo di fronte a un artista che offre la sua opera. Le tecniche sono importanti, ma a volte non bastano. Le tecniche sono comunque strumenti, non finalità della creazione artistica. Il fascino, che va a braccetto con la godibilità e la credibilità dell’opera,  fa parte della richiesta implicita dello spettatore che acquista il biglietto. Se fascinazione e credibilità vacillano, vacilla – per dirla brutalmente - l’utenza.

L’unica cosa che non vedo vacillare nelle Rassegne che frequento è l’edonismo che ha sostituito il piacere del corpo e che determina il formalismo algido di chi non ha trovato il modo per comunicare quello che voleva comunicare. C’è logos, ma non c’è mèlos, non c’è eros, non c’è amore. C’è l’involucro, ma non c’è la sostanza sensibile, capace di suscitare stupori ed emozioni. Vedo molti danzatori/attori e  pochi uomini, molte aure poetiche e pochi comportamenti poetici. Assisto all’uso di nuove tecnologie non suffragate  dal principio di relazione e dal principio di necessità. Vedo disattenzione profonda nei confronti della dualità e del movimento della creazione artistica che va dal concreto all’astratto, dal materiale all’immateriale, dal fare al dire, non viceversa. Vedo spine dorsali dure come bastoni, respirazione a bocca aperta che ostacola l’accensione delle pareti interne del corpo, maschere facciali fisse che vengono esibite per l’intera durata dello spettacolo. Non vedo caos, ma stabilità emotiva e mancanza di comunicazione. Non vedo autonomia creativa, ma dipendenza di un soggetto da un altro soggetto. Non vedo forme credibili, ma clichès prodotti dalle convenzioni imperanti. E’ ovvio, come ho già detto: neppure il processo organico è in grado di offrire la certezza dei risultati artistici, proprio perché si tratta di un processo e non di una formula o di una ricetta. Pur disponendo di una forte carica aurorale, il processo organico non garantisce in assolto la produzione delle forme organiche. Ha bisogno di contare sulla individualità dell’artista, su una specifica azione formativa, su un allenamento assiduo, ma anche da un quid d’imponderabile che l’artista ha o non ha, ed è il suo talento. Offre credenziali di maggiore credibilità ed efficacia perché consente di entrare - come sostiene Bataille -, in una specie di tomba dove l’infinito del possibile nasce dalla morte del mondo logico. Il logos scorre nelle viscere, per dirla con Rella, e con Testori, e quando ci accade di  dimenticarlo, scorgiamo alle nostre spalle “una catena luttuosa  in cui  si inanellano i corpi e le passioni sacrificate” (5).

(5) Franco Rella, Ai confini del corpo, op. cit. pp.47,48,51.

Leggendo  i programmi di sala di alcune rassegne teatrali, mi sono trovato di fronte a una catena luttuosa di “spettacoli sbigottiti” senza sbigottimento, di “sensualità ammiccante e travolgente”  senza stupore e coinvolgimento,  di offerte “travolgenti” senza partecipazione emotiva, di “corpi sopraffatti da una ardore senza sbocchi” sofferenti di sopraffazione del dato; di “racconti immorali a caccia di forme e di figure” nel presupposto che “attraverso la forma si possa penetrare nella sostanza”; d’idee bizzarre come “la propriocezione, o sesto senso: flusso sensorio continuo ma inconscio proveniente dalle parti mobili del nostro corpo, che ne controlla  e ne adatta di continuo la posizione, il tono e il movimento in modo che a noi rimane nascosto perché automatico ed inconscio”, responsabile di "trivelli/rovelli/vortici/avvitamenti con relativa perdita del sé corporeo”.

Il lavoro critico mi ha posto davanti a  domande ambiziose  come questa: “Che cosa succede ad un corpo immerso nel quotidiano scorrere del tempo in un ambiente asettico e invaso dalla massiccia presenza del suono?”. Per fortuna,  alla domanda seguiva la risposta che non avrei saputo dare nella sua vaghezza: “i corpi si misurano con lo stare dentro una rappresentazione, liberi di aderire a questo meccanismo oppure voltargli le spalle”.

Una serie di spettacoli, che nel ricordo mi appare infinita, mi hanno puntualmente informato sui  “nobili recessi del cuore”, sui “vasti sepolcri della natura”, sugli “uragani primordiali” e sui “caos esistenziali”  in  petti  compressi e doloranti, posti come artefatti in teche cimiteriali, calcificate, della disfatta finale, dopo “improvvisi salti emotivi”, dopo  “l’incertezza del  proprio destino legato alla posizione distesa del corpo” in una sala chirurgica “dove tutto si subisce in silenzio”, a significazione non di una ricerca della vita nella morte, ma come accumulo di reperti archeologici che esplicitano un discorso sulla “carne della nostra esistenza, del nostro dolore, del nostro conoscere”. Parole in libertà, legate a un progetto di scorporizzazione del teatro, legittimo come ogni altro progetto di  scrittura drammaturgia o di scrittura scenica, ma che ha fatto registrare un risultato non auspicabile, quello di far sentire inutile lo spettatore. Non sono contrario a priori ad alcuna forma di teatro, anche codificato, ma ritengo che il teatro fondato sulle azioni fisiche e sui processi organici sia più adatto al fare dei paesi occidentali, potendo contare sull’apporto di corpi erotici dotati di distacco e di tensione e sulle sinestesie necessarie a suscitare interesse e partecipazione emotiva. Insomma, la questione di fondo è sempre la stessa: lo spettacolo o conquista o non conquista la mente e il cuore dello spettatore.

(2.continua).