LETIZIA BERNAZZA



Il senso Civile del Teatro
di Letizia Bernazza

Sarà che oggi risulta strano avere una certa familiarità con il termine “civile”. Sarà che questo aggettivo, pertinente per definizione “al cittadino in quanto membro di uno Stato o genericamente di una comunità politica”, ha perso di valore. Sarà che il senso di civiltà è stato intaccato dalla progressiva decadenza e involuzione di una società non più regolata da un’etica politica in grado di garantirne il senso stesso di civiltà e, dunque, il complesso sviluppo sociale, economico e culturale. Sarà. Sarà che allora fa ancora più effetto scoprire la forza di un progetto come Civile ideato da Fiorenza Menni e Elena Di Gioia. Civile si nutre della necessità di un Teatro che funge da collante con la collettività di appartenenza. Un Teatro legato organicamente al suo pubblico e, quindi, capace di rappresentarne scelte, fisionomie, contraddizioni, proprio perché fondato sul dialogo, sullo scambio e sulla partecipazione. Un Teatro che si fa tramite essenziale con la comunità, ritrovando il significato profondo di “atto pubblico”, di un’arte cioè che agisce con la coscienza del luogo e della polis in cui si vive e con la prospettiva di attivare in essa importanti processi di trasformazione proprio a partire dalla dinamica relazionale Singolo-Altri. <<Civile>>, scrivono Fiorenza Menni e Elena Di Gioia, <<è una molteplice presa di parola di giovani cittadini che nasce dal desiderio di riflettere insieme ad altri (e come altri) sulle gravi e violente involuzioni culturali di alcune direzioni del contemporaneo>>. Il punto di partenza è l’attore, che diventa la lente d’ingrandimento dei “mutamenti e delle evoluzioni immaginifiche del tempo in cui vive”. Il percorso viene tracciato dal lavoro pedagogico con giovani attori svolto da diversi anni da Fiorenza Menni, già fondatrice del gruppo bolognese Teatrino Clandestino. La sfida è penetrare il mistero del Teatro, lasciando tracce, edificando luoghi, creando incontri.
La scelta attorale è il motore drammaturgico dalla quale far scaturire la possibile costruzione di un’identità differente da quella che quotidianamente ci viene proposta perlopiù dai media. E direi l’inizio complesso di riflessioni che ci portano dritti dentro alcune questioni: che cosa vuol dire oggi essere attore di Teatro? Ma soprattutto quale funzione culturale viene riconosciuta al Teatro? Alla prima rispondo, come rispondono durante lo spettacolo alcuni dei protagonisti (ricordo, tra quelli visti lo scorso maggio all’Angelo Mai di Roma, Eva Geatti e Andrea Mochi Sismondi): un consapevole modo di stare al mondo che dà senso alla propria vita perché scelta esistenziale e non un rifugio e tuttavia un lavoro che, per la precarietà stessa in cui si è costretti a svolgerlo, genera spesso una condizione emotiva e pratica di marginalità. Alla seconda in quanto critica e studiosa di teatro indignata che non comprende perché il Teatro debba essere martire costante di leggi e provvedimenti iniqui (l’ultimo è la circolare 105 del 5/08/2011 con la quale l’INPS dice addio una volta per tutte al sussidio di disoccupazione per gli artisti dello spettacolo). Come è possibile che ciechi burocrati non riconoscano quanto l’arte, e in particolare l’arte viva del Teatro, sia un mezzo espressivo necessario per interrompere l’eco sordo del diffuso senso di inciviltà senza morale che ci invade? Civile è un’alternativa efficace: è la sfida da raccogliere per dimostrare – d’accordo con quanto sostenuto dal Professore Marco De Marinis - che l’arte, la cultura, la bellezza sono indispensabili per uscire tutti insieme dalla crisi attuale. Fiorenza Menni, Elena Di Gioia e gli attori coinvolti nel progetto solcano con la loro presenza il cammino impervio del terreno dissestato del Teatro: con le loro azioni disseminano pensieri; interrompono la solitudine dello spettatore che, a partire dal gesto d’arte dell’attore, è stimolato ad approfondire la costruzione del proprio progetto di vita e a riscoprire la propria Identità, Memoria e Storia; marcano luoghi e, dunque, segnano relazioni perché si mettono in cammino tra sale d’aspetto, università, negozi, librerie, biblioteche, musei, foyer. Lo sguardo dell’invenzione creativa travalica i confini, i vincoli degli spazi teatrali ufficiali e Civile svela il sorprendente tempo umano dell’ascolto.


Sullo stesso argomento segnaliamo gli articoli apparsi sino ad ora sul blog Liminateatri:

Per un teatro civile e responsabile
di Letizia Bernazza

Il Teatro Civile oltre le frontiere. Intervista a intervista a Kateřina Bohadlová
di Letizia Bernazza

Attrice di nome e di fatto
di Roberta Biagiarelli

Essere o non essere (attore)
di Letizia Bernazza

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Qualche riflessione sul Festival Sens Interdits di Lione
di Letizia Bernazza

Interessata a sviluppare un Progetto Europeo volto a investigare “oltre frontiera” l’esistenza di un Teatro capace di illuminare il nostro presente e il nostro futuro in sintonia con i costanti mutamenti sociali e politici, lo scorso ottobre sono andata a Lione per partecipare al Festival Sens Interdits. Questo titolo, già un anno fa, aveva catturato la mia curiosità quando la ricerca sul fenomeno del Teatro Civile, iniziata con la pubblicazione di Frontiere di Teatro Civile (Editoria&Spettacolo, 2010), quasi naturalmente mi aveva condotto al di fuori dei confini nazionali. La riflessione si orientava su tre direttrici principali: verificare l’esistenza di un Teatro Civile nella realtà europea ed extra europea; delineare i tratti drammaturgici ed espressivi che lo caratterizzano; individuare differenze e similitudini con il nostro Teatro Civile. Sens Interdits  rappresenta la prima tappa di tale percorso. Intanto perché condivido la proposta decisa del suo direttore artistico Patrick Penot: pensare un Teatro che miri al cambiamento sociale e politico. Dunque, non soltanto un teatro d’impegno, ma l’elaborazione di una pratica estetica necessaria per stimolare nella collettività riflessioni ed azioni. In secondo luogo perché è lo stesso concetto di collettività ad estendersi oltre le semplici demarcazioni geografiche. Nella programmazione del Festival, infatti, gruppi provenienti da ogni angolo del Mondo sono chiamati a costruire il dialogo interculturale e il dibattito, ampio e complesso, sui valori della solidarietà, della laicità e della libertà. La città di Lione e la Regione Rhône-Alpes si confrontano con altri Paesi e altri scenari politici, sociali, economici, penetrati da un Teatro dell’Urgenza che ruota intorno alle tematiche (non a caso declinate al plurale) delle Memorie, delle Identità e delle Resistenze. Se due anni fa (inaugurato nel 2009, il Festival ha cadenza biennale) le compagnie provenivano soprattutto dall’Europa, l’edizione 2011 (presentata dal 21 ottobre al 9 novembre scorsi) ha visto alternarsi sui palcoscenici di Lione e delle città vicine, artisti cambogiani, tunisini, cileni, russi, polacchi, olandesi, francesi. <>, dichiara Patrick Penot, <>. Patrick Penot, i suoi collaboratori più stretti (Marc Lesage, Claudia Stavisky) e l’intero staff hanno centrato l’obiettivo. Ad ogni rappresentazione c’erano sempre molte persone. Soprattutto ragazzi e ragazze che affollavano le sale, grandi e piccole, durante gli spettacoli e subito dopo nel corso degli incontri organizzati con i protagonisti delle pièces (attori, registi, drammaturghi). Due almeno le motivazioni di una così grande adesione da parte del pubblico: l’interesse dimostrato per i contenuti delle messinscene, per la maggior parte di grande qualità artistica; l’evidente lavoro di radicamento sul territorio portato avanti quotidianamente dal lionese Teatro Célestins, alla cui guida ci sono gli stessi Penot e Stavisky. Per ciò che concerne la prima questione, è da notare, infatti, che il contenuto delle opere presentate a Sens Interdits non sovrasta mai la “forma” del Teatro. Un rischio che  corre il Teatro Civile italiano dove spesso si tende ad anteporre il “messaggio” all’arte attoriale con il risultato che le “tesi” esposte vengano “riportate” nude e crude, senza quell’elegia e quella visionarietà derivanti dal complesso alfabeto gestuale e vocale dell’attore. È quest’ultimo, invece, che per primo dovrebbe assumersi la responsabilità – attraverso una ferma disciplina e un assiduo training – di elaborare un linguaggio espressivo efficace al punto da trasformare l’atto teatrale in un’esperienza eccezionale, memorabile, che possa smuovere la coscienza dello spettatore e il suo sguardo critico sul Mondo. Esattamente quello che ho provato, prendendo parte a molti degli spettacoli di Sens Interdits. Forse perché molti di essi sono nati proprio dalla resistenza concreta alla censura, alla dittatura, alla guerra, alla subalternità sociale della donna che hanno reso indispensabile un’impalcatura teatrale solida per sostenere il peso dei temi veicolati e per mettere gli spettatori nella condizione “di vedere” una realtà differente o perlomeno di immaginarla. Proprio da questi presupposti nascono Yahia Yaïch Amnesia, dei tunisini Salila Baccar e Fadhel Jaïbi, un tragico spaccato del potere dispotico di Ben Ali e un’ode alla libertà, annunciatrice della Primavera Araba o Comida Alemana, diretta da Cristián Plana che trasferisce in Cile Il pranzo tedesco di Thomas Bernhard per denunciare la follia delle violenze perpetuate da ex-nazisti nella Colonia Dignidad durante la dittatura di Pinochet. O ancora Ce jour-là, creazione collettiva del Théâtre Aftaab nato a Kabul grazie all’esperienza avviata dal Théâtre du Soleil con giovani artisti afgani per raccontare gli anni del conflitto bellico in quella terra. Mentre non sono da dimenticare Une guerre personnelle della regista russa Tatiana Frolova - creatrice nel 1985 del primo teatro indipendente russo (il Teatro KnAM) – che ci racconta la guerra cecena né i numerosi spettacoli che hanno voluto trattare gli argomenti dell’immigrazione e della convivenza fra i popoli (On ne peut pas se plaindre con la regia di Michal Laznovsky e Frederika Smetana; Ceci est mon père di Ilay den Boer) o della condizione femminile (Choeur de femmes di Marta Górnicka, Ni pu tremen di Paula Gonzáles Seguel).
Tutti temi sui quali, come ho già detto, alla fine di ogni messinscena si era chiamati a dibattere, discutere, confrontarsi, facendo del Teatro un luogo vivo e non elitario, con uno spazio riconosciuto nella società civile e destinato a non essere relegato soltanto in circuiti marginali.

Info e foto: www.sensinterdits.org 

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Essere o non essere (attore)
di Letizia Bernazza


Poco più di un anno fa, usciva per i tipi di Editoria&Spettacolo il mio libro Frontiere di Teatro Civile. Da allora, tra presentazioni e incontri, ci sono stati tanti momenti di riflessione e di costruttivo indagare su che cosa voglia dire oggi fare Teatro Civile.
Cercando il più possibile di evitare facili schematizzazioni e scontati “apparentamenti” di genere (ad esempio, la coincidenza tra Teatro di Narrazione e Teatro Civile), nel tentativo di approfondire la mia ricerca, ho iniziato a riflettere sulla fisionomia dell’attore che sceglie di muoversi lungo la direttrice del teatro d’impegno. Dei cinque protagonisti di Frontiere – Daniele Biacchessi, Roberta Biagiarelli, Elena Guerrini, Alessandro Langiu, Ulderico Pesce – tranne il primo, si tratta di attori, i quali hanno seguito ciascuno un proprio percorso di apprendimento, di disciplina e di tecniche attoriche che costituiscono, e cito Ferdinando Taviani, <<… il materiale da cui arguire, ricostruire, immaginare – e naturalmente fraintendere – un modo di ordire il legame con lo spettatore. In altre parole: le tecniche non come grammatica del teatro, ma come indizi e spie d’un possibile modo di modellare l’unione fra l’attore e il suo spettatore, cellule di organismi immaginabili.>> (Ferdinando Taviani,  Attor Fino. 11 Appunti in prima persona sul futuro di un’arte in via d’estinzione, <>, n. 2/2010, p. 82).
Laddove, dunque, a veicolare la relazione attore-spettatore non sia un attore, ma appunto come nel caso di Daniele Biacchessi un giornalista (e la lista si potrebbe allungare con i nomi di tanti altri giornalisti e scrittori: da Marco Travaglio a Corrado Augias fino a Roberto Saviano…), due questioni sono da porre: la prima è che cosa spinge dei non-attori a intraprendere la strada del teatro per portare sulla scena pezzi dolorosi della Storia del nostro Paese; la seconda è se salire su un palco per raccontare stragi e processi mai conclusi sia sufficiente per fare teatro.
Senza dubbio, il fondamento che orienta la scelta di quelli che definisco testimoni-attori (cioè intellettuali che diventano attori per necessità, distinti dagli attori-testimoni che decidono, invece, di intraprendere la via della testimonianza dei fatti attraverso il Teatro) è costituito dall’urgenza di raccontare e di mettere a parte un’intera comunità sul nostro passato e, quindi, sul nostro presente: cosa non da poco in un’Italia che invoca continuamente la rimozione del passato al fine di mettere a tacere misteri irrisolti e sfacciate ingiustizie. La sofferenza provocata da stragi e omicidi rimasti perlopiù impuniti - temi questi ultimi al centro, ad esempio, di molti lavori di Daniele Biacchessi - domanda infatti per riflesso un tempo e uno spazio d’azione in un oggi che insegue l’oblio. Dunque, è proprio il bisogno del far conoscere, che passa attraverso la narrazione della cronaca puntuale degli avvenimenti, a far scaturire la riflessione del cittadino-spettatore. La pagina scritta è convertita in oralità per condividere il carico delle mostruose sciagure del Mondo. E il giornalista-narratore, con la sua presenza in scena, si fa interprete della materia epica della collettività, superando così la propria solitudine e ritrovando il senso della memoria e della partecipazione. Non escludendo, peraltro, un potenziale cambiamento nella società. <>, scrive Roberto Saviano, <> (Roberto Saviano, La bellezza e l’inferno. Scritti 2004-2009, Mondatori, Milano 2009, p. 53). Il teatro diventa il luogo ideale del confronto che dà risalto alle contraddizioni della comunità d’appartenenza per tentare di risolverle. Con un tramite fondamentale: l’attore in carne e ossa davanti al pubblico. Un essere umano che si mette in gioco e che riscopre la figura antica del Narratore con la sua forza di conferire rispetto tanto al personaggio quanto al racconto in un armonico alternarsi di identificazione e distanza. Ora, se da un lato, il processo comunicativo costruito dai testimoni-attori ha lo stampo brechtiano del dramma didattico, di un dramma cioè che sottopone agli spettatori delle tesi finalizzate a far emergere conflitti e a suggerire possibili riflessioni; dall’altro l’elemento fondante del passaggio vita-teatro - di cui il presupposto determinante è il giornalista/scrittore calato nel ruolo di attore - risiede nel rinvigorire i legami con la realtà a difesa di un presente che può avere significato soltanto in rapporto al passato e alla memoria.  A completamento di tali riflessioni, c’è da dire, però, che la scelta del teatro in tali casi è una scelta obbligata per compensare o, addirittura, rimpiazzare il lavoro che sarebbe di altri: in un Paese serio, quello di giornalisti, magistrati, politici, insegnanti, in grado di esercitare appieno le loro professioni o di essere messi nella condizione di esercitarle. Il teatro, dunque, va a colmare un vuoto: restituisce alla polis storie che interessano la stessa comunità; contribuisce alla costruzione di Mondi differenti, ma possibili; trasmette esperienze, restituendo la parola a un’umanità sommersa, sottomessa, impotente; crea relazioni intorno alla fenomenologia del conflitto, motore dell’intreccio drammaturgico e delle azioni delle dramatis personae. Le emergenze ambientali e il problema dei rifiuti, le annose questioni dell’occupazione e delle morti bianche, i misteri della nostra politica e i tanti massacri consumati su intere popolazioni “nel rispetto” di “equilibri” internazionali, sono l’humus del Teatro Civile e, nel contempo, tematiche-simbolo di un teatro che attraverso il corpo e le voci degli attori sfonda il muro del silenzio e dell’indifferenza.
E qui arriviamo alla seconda questione posta in apertura: in nome di vere e proprie battaglie civili - condotte da giornalisti/scrittori che a un certo punto sentono il bisogno di andare oltre la pagina scritta e “far volare le parole” (l’espressione è presa a prestito da un’affermazione di Daniele Biacchessi) per far vibrare l’anima e la ragione di pullulanti piazze e platee –  c’è il rischio di anteporre il messaggio alla stessa arte attoriale che richiede apprendistato e disciplina, applicazione e training, indispensabili – direbbe Antonin Artaud – per far parlare i gesti, gli oggetti, i suoni e lo spazio? D’altronde la relazione attore-spettatore, fondamento del teatro, si nutre della forza di uno scambio che passa dalla vita alla scena proprio per mezzo dell’energia dell’attore, delle sue azioni fisiche, della sua vocalità, maturate dall’esperienza di un allenamento quotidiano. Se tutto questo non c’è, qual è l’effetto prodotto? C’è senza dubbio la trasmissione del senso profondo della responsabilità politica che arriva allo spettatore sia perché si tratta di tematiche condivise con l’attore sia perché nella messa in gioco dell’interprete c’è lo stimolo in chi partecipa allo spettacolo a misurarsi in prima persona con le contraddizioni della contemporaneità. Essere presenti nell’atto teatrale, invoca anche l’essere presenti nella società. C’è però anche il rischio che, laddove non ci sia sapienza attoriale (e questo vale soprattutto per i non-attori, ma spesso anche per chi è del mestiere!) - derivata da elaborati processi mentali, fisici ed emotivi propri della fenomenologia della recitazione - il messaggio arrivi come spogliato dei valori supremi dell’arte del teatro, che sa provocare suggestioni, metafore, allegorie, poesia, attraverso la parola, che si fa carne, dell’attore e del suo corpo, capace di inseguire il flusso inesplorabile della voce. C’è insomma il rischio che il messaggio perda la sua stessa efficacia e che le tesi esposte vengano “riportate” nude e crude senza quell’ “incantamento” e quell’elegia, sostenute da un complesso alfabeto gestuale e da puntuali vibrazioni vocali (penso a tale proposito, ad esempio, a molte messinscene di Roberta Biagiarelli, Elena Guerrini, Alessandro Langiu e Ulderico Pesce) che consentono di accrescere sì la comprensione del Mondo, ma con grande fantasia, curiosità e incredibile suggestione. Altrimenti, dove risiede la differenza tra il leggere un saggio o guardare un reportage televisivo su una determinata questione e partecipare a uno spettacolo che di quella stessa questione dibatte e discute? Forse nel proporre più domande e meno tesi pre-determinate: indagando, cioè, il quotidiano flusso degli avvenimenti con la potenza rigeneratrice dell’emozione al fine di far risaltare, nella sua totalità, il senso dell’agire e del “mettersi in gioco” . Credo che soltanto così nel Teatro Civile si possano usare le armi proprie dell’espressione teatrale senza cambiare il campo di battaglia, come direbbe Franco Ruffini.




Per un teatro civile e  responsabile
                                                   di Letizia Bernazza


Teatro civile o teatro “incivile”, teatro politico o teatro d’impegno sociale. Teatro, direi innanzitutto. Perdersi in definizioni di “genere” o in collocazioni storico-teatrali che attengono a singoli autori, inquadrati in percorsi espressivi e artistici di indubbia veridicità critica, mi sembra una strada da abbandonare. Quando c’è un’urgenza civile, non si può divagare troppo.
Nel clima socio-politico che stiamo vivendo, c’è un’esigenza più forte che richiama la nostra riflessione, ed è culturale prima ancora che estetico-teatrale. Non penso, infatti, sia tanto importante puntualizzare - ciascuno dal punto di vista che più gli sta a cuore, per affinità intellettuale, percorso critico e/o artistico - i pregi di un Teatro Civile più incline alle proprie corde, quanto riconoscere o non riconoscere un valore e un ruolo oggi al Teatro. E, in particolare, a quel Teatro che sa farsi carico delle problematiche della nostra collettività e che, per forza di cose, diventa Civile, vale a dire espressione della comunità di appartenenza.
Certo, il Teatro essendo un atto pubblico è già di per sé Teatro Civile, diretta espressione di un “sentire” comunitario. Non penso, però basti. Perché vale la pena interrogarsi su cosa significhi oggi portare sulla scena spettacoli sulla mancanza del lavoro e sulle morti bianche; sulle stragi di Stato e sulle connivenze tra mafia e politica; sui disastri ambientali e sulle pesanti conseguenze dell’inquinamento industriale in molte regioni del nostro Paese. In un momento in cui, lo svuotamento del valore della politica ha un effetto disgregante sulla collettività, nella quale il singolo individuo è diventato un’“entità” isolata che ha perso il proprio legame con la sua Memoria e la sua Storia, polverizzate dalla disumanizzazione costante operata scientemente dai mass media, c’è da chiedersi se il Teatro possa essere uno strumento valido per suscitare un dibattito sui problemi della società. E, provocatoriamente, provare a capire anche se il Teatro Civile, quello a cui viene delegato il compito di occuparsi di emergenze socio-economiche, politico-culturali e ambientali, sia in grado di analizzarle per tentare di sensibilizzare la coscienza dei cittadini-spettatori in una prospettiva che guardi a una loro possibile risoluzione. Premesso che sarebbe compito dei politici e degli uomini di legge gestire con atti responsabili la res publica, dei giornalisti raccontare la “verità dei fatti”, degli insegnanti trasmettere l’amore profondo per la cultura…, il Teatro è senza dubbio uno dei territori privilegiati per condurre le persone a una presa di coscienza della realtà. E questo perché, essendo un’arte fondata sulla relazione, è dinamicamente volto a tenere saldo il confronto con le necessità civili e sociali, di conseguenza ad assumere il valore di un mezzo che, rafforzando il dialogo, interviene nella dinamica relazionale Singolo-Altri. E anche perché è un’arte fondata sulla “presenza” che ha il suo acme espressivo nell’hic et nunc di esseri umani che interagiscono e si scambiano esperienze. L’essenza dell’intersoggettività si traduce nel creare le basi di un rapporto con i fatti mostrati in scena, con i conflitti che evidenziano le contraddizioni della nostra contemporaneità e che invitano a sfidare l’egocentrismo in nome della solidarietà. Solidarietà che significa proiettarsi oltre se stessi, al di là della propria mente e del proprio corpo, al fine di riconoscere il valore di un individuo in perenne rapporto con gli altri. Far parte di una platea richiede, infatti, di considerare le differenze in un’ottica che va oltre l’individualismo e che invita a riscoprire la ricchezza della collettività, senza la quale verrebbe meno l’Identità e non avrebbe senso parlare di civiltà e di coscienza civile. Se, poi, il feedback tra attore e spettatore funziona, il bisogno del confronto supera l’illusione teatrale e lascia il posto al desiderio di indagare insieme vicende dimenticate, o rimosse, del patrimonio culturale. In questi casi, chi accetta responsabilmente e con “disponibilità percettiva”di fare i conti con la Storia non è escluso reagisca fattivamente di fronte a temi scottanti del passato e del presente. A mio avviso, il Teatro Civile oggi ha sicuramente una valenza “didattica” (di ascendenza brechtiana), sebbene tenda più a “riabilitare” l’individuo nel Mondo che a proporre delle vere e proprie strategie rivoluzionarie, come era stato tentato in Italia negli anni Settanta in linea con l’istanza di rovesciare l’establishment politico-sociale. Riconosco, cioè, al Teatro Civile la funzione civica di sottrarre all’oblio i fatti che hanno segnato e segnano la società contemporanea. Un luogo in cui “dal vivo” si possono penetrare i conflitti derivanti da paure, incertezze, disagi. In questo senso, allora, si può affermare che il Teatro assolve a uno dei suoi compiti più importanti: offrire ai partecipanti un’esperienza più profonda della vita di tutti i giorni. La quotidianità si fa extra-quotidianità, fino ad offrire un’esperienza profonda che si avvicina, “alla comprensione di tutte le cose”, avrebbe detto Julian Beck, e assume un carattere “straordinario” proprio perché consente di guardare con altri occhi la realtà, in genere già predeterminata e confezionata dai media. E il carattere “straordinario” sta non soltanto nell’apprendere gli avvenimenti in maniera differente da come normalmente siamo abituati a subirli dalla società di massa, ma anche a ritrovare, d’accordo con quanto sostiene Alberto Abruzzese, la presenza fisica dei corpi e delle passioni della civiltà urbana, assorbita (derealizzata) nei flussi dell’informazione elettronica. Alla dimensione “metaterritoriale dei media” si sostituisce un fatto reale e il suo diretto referente sociale, contribuendo a formare uno spettatore-cittadino attivo, che del teatro può comprendere le finalità estetiche ed etiche. E tutto questo in virtù della fondamentale “mediazione” dell’attore che in quanto “segno-mondo” - per utilizzare una citazione di Gerardo Guccini – con la sua presenza e il suo complesso universo personale testimonia allo spettatore una passione talmente coinvolgente e diretta da essere riconosciuta come unica, non sostituibile da altri e tantomeno assimilabile ai personaggi delle fiction.
 Ora semmai i problemi da porre sono altri: il Teatro, considerato spesso una forma espressiva elitaria, può avere oggi la funzione di un rito collettivo come nell’antica polis greca? Si riconosce al Teatro l’importanza di essere un luogo di costruzione dell’immaginario collettivo? In un presente ormai avvezzo a “sospendere” i conflitti, a negare con superficiale banalità quanto affermato il giorno prima, come far risultare “vero” quel dissenso, seppure minoritario, che attraversa il corpo sociale e che in teatro può diventare oggetto di esperienza, consapevolezza e riflessione? E, poi, è d’obbligo chiedersi: in futuro, quali percorsi drammaturgici ed espressivi intraprenderanno gli autori-attori-registi che si occupano di mettere in scena spettacoli di forte impatto socio-politico? Il Teatro Civile ormai non coincide più soltanto con il Teatro di Narrazione, rappresentato nella sua essenzialità da un autore-attore-regista che da solo, su di un palco spesso vuoto, si fa carico di rappresentare il molteplice vissuto delle dramatis personae nel consapevole essere interprete “unico” di un complesso e strutturato ordito drammaturgico. C’è il Teatro di Narrazione, ma anche forme teatrali differenti che reclamano la presenza di più attori in scena coerentemente al fatto di rendere lo sviluppo della pièce con più personaggi e con altrettanti attori in carne ed ossa. C’è il Teatro Inchiesta condotto da testimoni che vestono i panni degli attori, sebbene non siano attori di professione. È il caso, ad esempio, di molti reporter che decidono di portare di fronte a platee composte di migliaia di persone le loro laboriose indagini giornalistiche. In che modo delimitare, allora, e soprattutto con quali criteri, l’ambito dell’attore-testimone da quello del testimone-attore, colui cioè che diventa testimone del nostro presente per il bisogno di supplire alle mancanze di una professione che si fa sempre di più nelle redazioni, di fronte alle agenzie di stampa da tagliare e incollare, e sempre meno nei “luoghi” della notizia? Importante questione quest’ultima, che mette l’accento anche sul non trascurabile problema dei finanziamenti e della ricerca degli spazi. Le esigue risorse economiche e gli insignificanti investimenti destinati al nostro Teatro hanno penalizzato il funzionamento dei circuiti e dei luoghi a disposizione degli artisti. Si sta “fuori dai teatri” (nelle fabbriche, nei centri sociali, nelle stazioni, nelle scuole, nelle case, nei poderi…) indubbiamente per scelta, ma spesso per necessità. E, se questo può andar bene per gli attori non professionisti, diventa uno scotto altissimo da pagare per quegli attori di professione che vengono esclusi proprio dal Teatro in nome di ciechi monopoli di gruppi di potere e di inique ingerenze della burocrazia politica e amministrativa nei teatri pubblici.





Il Teatro Civile oltre le frontiere
intervista a Kateřina Bohadlová
di Letizia Bernazza


Dopo la pubblicazione del mio ultimo libro, Frontiere di Teatro Civile (edito da Editoria&Spettacolo), uno studio sul lavoro drammaturgico e attoriale di cinque autori-attori-registi (Daniele Biacchessi, Roberta Biagiarelli, Alessandro Langiu, Elena Guerrini, Ulderico Pesce) che si muovono lungo la direttrice dell’impegno civile, ho sentito la necessità di andare avanti con la mia ricerca. Non solo per confrontarmi con lo sguardo di altri Paesi sul Teatro Civile italiano, ma soprattutto per capire  in che modo in altri luoghi ci si interroga su tematiche simili. Un passo fondamentale per avviare una riflessione sulle “frontiere” culturali e teatrali italiane in nome di un’urgenza civile che, forse, non appartiene soltanto alla nostra comunità e che porta inevitabilmente a spingersi “oltre le frontiere” con lo scopo di riscoprire il valore dell’arte del Teatro al servizio dello spettatore-cittadino proprio in quanto arte fondata per sua natura sulla relazione umana e, quindi, dinamicamente volta a tenere salda la relazione Singolo-Altri.
Praga è stata la prima tappa di questo cammino. Il 12 novembre scorso, la Società Dante Alighieri mi ha invitato a presentare il mio libro. L’incontro, coordinato dalla studiosa e agente teatrale Kateřina Bohadlová, ha suggerito un dibattito ricco e stimolante con i partecipanti. Passato qualche mese, proprio a lei mi sono rivolta per rimettere insieme i tasselli di quella giornata, invitandola a rispondere ad alcune domande.

 - Cosa esprime secondo te il Teatro Civile italiano?

Quando a Praga ho presentato il tuo libro, ho scoperto per la prima volta il Teatro Civile e mi sono chiesta che cosa fosse esattamente. Un teatro impegnato? Un teatro politico? Il contrario di un “Teatro Incivile”, ammesso che ce ne sia uno? Conosco alcuni autori italiani contemporanei, tra questi anche dei rappresentanti del Teatro di Narrazione, e so che per Ascanio Celestini, ad esempio, tutto il Teatro viene considerato politico proprio perché si tratta di un atto pubblico. Poi, però, leggendo attentamente Frontiere di Teatro Civile mi si è rivelato un Teatro che si interroga in maniera critica su problematiche specifiche della collettività: sociali, politiche, economiche, ambientali, che riguardano da vicino l’individuo e la sua comunità, della quale si vogliono ricostruire l’Identità, la Memoria e la Storia. Senza escludere la possibilità di condurre lo spettatore-cittadino a prendere delle posizioni rispetto alle vicende raccontate. È esagerato dire che si tratta di un Teatro che contribuisce a pensare un Mondo più giusto?


- Nella Repubblica Ceca, in particolare a Praga dove vivi, conosci artisti o compagnie che si avvicinano al nostro Teatro Civile? Oppure esistono altre modalità d’espressione?

Direi che il Teatro Civile italiano corrisponde nella Repubblica Ceca al fenomeno del Teatro Impegnato, vale a dire un teatro che si è fatto carico, e si fa carico ancora oggi, di affrontare le questioni cruciali della società.
Nella seconda metà del Novecento, il nemico numero uno era il regime comunista. E siccome non era possibile esprimere le proprie opinioni, l’arte underground ha avuto il ruolo di prendere posizione e di manifestare il dissenso contro il potere politico, anche se sempre con grandi difficoltà. Dopo la caduta del muro, finalmente agli artisti è stata concessa l’opportunità di uscire allo scoperto e di pubblicare i loro testi. Mi riferisco ai drammi di autori importanti, conosciuti anche all’estero, che si sono confrontati con il passato totalitario del mio Paese: Václav Havel, Milan Uhde, Pavel Kohout. Soltanto una decina d’anni fa, poi, è emerso il fenomeno di un Teatro Impegnato simile al Teatro Civile italiano. Si tratta, nel dettaglio, di un tipo di teatro che ripropone processi politici e sociali del passato e del presente. Fra gli artisti principali voglio ricordare: Miroslav Bambušek; Jiří Adámek e la sua compagnia Bocalocalab; Petr Boháč, fondatore della Spitfire Company e la giovane compagnia Divadlo Feste.


- Quali sono i contenuti che veicolano le loro messinscene e da che cosa è caratterizzato il linguaggio espressivo?

C’è sempre la necessità di confrontarsi con il regime subìto. La Spitfire Company, ad esempio, pochi mesi fa ha concepito uno spettacolo costruito sui processi politici degli anni Cinquanta, periodo in cui molte persone furono condannate a morte per delitti mai commessi. Si trattò di una terribile impostura con dei processi vergognosi che assomigliavano a dei veri e propri spettacoli teatrali dal finale drammaticamente vero. Lo spettacolo Processo 10/48/7830 si è svolto a Praga nella medesima sala della Suprema Corte dove, tra il maggio e il giugno del 1950, la dottoressa Milada Horáková fu dapprima processata e poi condannata a morte per spionaggio e cospirazione contro il regime comunista. Nella messinscena, giocata quasi totalmente sul registro del “non-verbale”, il regista ha inserito in diversi passaggi la voce dell’accusata recuperata dalle registrazioni originali. Sessant’anni dopo, l’effetto ha avuto un grande impatto emotivo sugli spettatori.
Un altro lavoro da menzionare è quello fatto da Miroslav Bambušek nella ex-miniera di carbone di Ostrava, una città a nord-est della Repubblica Ceca. Un luogo dove, alla metà del Novecento, accaddero terribili incidenti mai denunciati e mai resi noti all’opinione pubblica. Il regista, dopo aver fatto numerose ricerche, ha realizzato (????puoi inserire il titolo dello spettacolo?) creato proprio dalle testimonianze e dai documenti originali reperiti subito dopo la caduta del muro.
Infine, vorrei menzionare l’attività di Jiří Adámek, il quale sviluppa una scrittura drammaturgica del tutto originale, studiando ed elaborando i commenti e i dialoghi messi in rete dagli internauti. Qualche anno fa, ha portato in scena (???puoi inserire il titolo dello spettacolo??) basato sui commenti on-line sull’esecuzione di Saddam Hussein. 
Tutti gli esempi che ho fatto rivelano una propria specificità drammaturgica ed espressiva e nella realizzazione hanno, a mio avviso, delle differenze sostanziali con il Teatro Civile italiano. Per dirne una: il racconto non viene quasi mai veicolato da un solo attore, che ha anche il ruolo di autore e di regista. Al contrario, c’è quasi sempre un lavoro collettivo, con una compagnia di riferimento, un drammaturgo, un regista. Semmai il comune denominatore è da rintracciare nella volontà di condividere con gli spettatori delle “verità” che appartengono alla Storia e alla Memoria del Paese.


- Gli autori-attori-registi del Teatro Civile italiano si muovono perlopiù in spazi non-convenzionali, fuori dai circuiti ufficiali. Accade lo stesso da voi?

Da noi, c’è di tutto. Ultimamente aumentano gli spettacolo messi in scena fuori dagli spazi convenzionali, nei cosiddetti site specific. Per quanto mi riguarda, sono favorevole a questa tendenza perché la “pluralità” degli spazi rafforza in molti casi l’effetto finale dello spettacolo e offre a chi partecipa un’alternativa, un’esperienza diversa.

- Quale tipo di pubblico richiamano gli spettacoli di impegno civile?

Gli spettacoli del Teatro Impegnato sono considerati alternativi o sperimentali e richiamano di solito  gente aperta alle novità, persone perlopiù progressiste che riflettono i cambiamenti della società democratica e riformista nata dopo il totalitarismo. O giovani che credono nel potere del Teatro: nella sua forza capace di creare un immaginario collettivo e di suscitare un atteggiamento critico.

- In Italia, a parte il caso di artisti molto noti, non c’è da parte della critica e delle Istituzioni teatrali un sostegno reale verso coloro i quali con le loro messinscene cercano di ristabilire un legame importante con la comunità di appartenenza. Nella Repubblica Ceca pensi ci sia invece un’attenzione diversa?

Credo che il Teatro Civile abbia in generale il potere di riaprire “vecchi cassetti” della Storia, spesso chiusi troppo presto anche per la volontà di farli dimenticare. I colpevoli sono il più delle volte potenti che utilizzano ogni strumento a loro disposizione per impedire lo svelamento di fatti scomodi. Quando si tratta di storie passate, da un punto di vista politico è più facile parlarne attraverso uno spettacolo, sebbene restino comunque le difficoltà economiche per realizzarlo (il Teatro non gode di grande salute neanche nella Repubblica Ceca!). C’è da dire tuttavia che, rispetto agli anni post-rivoluzionari, oggi si registra un progressivo sviluppo del Teatro d’Impegno. Un dato importante, secondo me, soprattutto perché noi Cechi siamo molto cauti e poco coraggiosi nei confronti delle novità e dei cambiamenti, al punto da poter celebrare con convinzione un dramma contemporaneo sulle nostre scene soltanto se prima lo stesso ha avuto un vero riconoscimento in Germania, in Inghilterra o negli Usa.


- Credi che possa esistere un Teatro Civile europeo?

Secondo me un Teatro Civile europeo esiste già. Ogni nazione ha il proprio e i risultati possono essere diversi anche se si trattano argomenti simili. Mi auguro che in futuro si moltiplichino le occasioni di confronto e di discussione tra le comunità teatrali: aiuterebbe a comprendere meglio le diversità nazionali e le eterogeneità culturali, rendendo più armonico e fattivo il dialogo fra le società. Auguriamocelo per il 2011.